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La linea analitica dell'arte. Pittura analitica

5 esponenti: stessa modalità di ricerca, precisa diversità individuale.
Artisti presentati: Paolo Cotani, Riccardo Guarneri, Elio Marchegiani, Claudio Verna, Gianfranco Zappettini

Inaugurazione 19/04/2013
ore 18.00
Chiusura 14/06/2013
Sede: Valmore studio d'arte, Vicenza

Analitica

Progetti per una nuova pittura

di Alberto Rigoni, 2013

 

La parola “crisi” ha molteplici significati. A scuola si insegna che deriva dal greco κρίνω, divido. “Crisi”, come “crinale”, indica una soglia di divisione, un passaggio tra due versanti opposti, una rottura tra un prima e un dopo. È un passaggio spesso doloroso ma non sempre negativo, specie se dopo si apre una più florida fase. Di crisi, la pittura ne ha vissute varie, nella sua plurimillenaria storia. Quella che attraversò tra gli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta è la più recente.

Negli anni della Guerra Fredda, alcuni artisti perforarono idealmente la Cortina di Ferro, andando alla ricerca di affinità da entrambi i lati del confine. Una galassia di mostre, gruppi, biennali, manifesti diede una svolta all’arte europea: “le Mouvement” a Parigi nel 1955, il “Gruppo T” a Milano nel 1959, il “Gruppo N” a Padova nel 1961, “Dviženje” (cioè “movimento”) in Russia nel 1962, fino alle mostre della Nuova Tendenza a Zagabria, tutti implicavano in varia misura l’intenzione a superare l’arte accademica, a mettere da parte un modo di fare pittura e scultura non più al passo coi tempi. Kennedy aveva lanciato la sfida di portare l’uomo sulla Luna? Anche l’arte doveva aprirsi al futuro, abbandonare l’improvvisazione, utilizzare nuovi strumenti, uscire dalla torre d’avorio. Bisognava muoversi (“arte cinetica”) e programmare (“arte programmata”).

In questo processo, la pittura, regina delle discipline accademiche, era il principale imputato. Inoltre, nel 1967 nacque l’“Arte Povera”, in cui la tecnica e il materiale con cui si crea un’opera cessavano del tutto di avere importanza (si poteva utilizzare dall’albero al vecchio motore, con estrema libertà espressiva); e nel 1969 Joseph Kosuth, capofila dell’Arte Concettuale, constatò lo stato di morte della pittura, ormai espulsa anche dai musei internazionali: in futuro – spiegava – non ci sarebbe stato più bisogno di tele e pennelli, bastava un’idea o un concetto, e lui stesso non riusciva a comprendere chi ancora pensasse «in termini di pittura».

Eppure, proprio in quel 1969, c’erano pittori che non solo aveva capito la lezione, ma stavano già delineando nuove proposte. In Francia, Louis Cane, Marc Devade, Noël Dolla, Claude Viallat, rappresentanti di “Supports/Surfaces”, avevano già superato l’Arte Povera, sostenendo la necessità di tornare al “grado zero” della pittura, alle primitive impronte delle mani nelle caverne, al colore applicato sulla natura, sulla tela grezza e libera, su reti da pesca, o direttamente sul telaio. Mentre un’intera società veniva smontata e rimontata dal Sessantotto, il pittore – spiegavano – non poteva sottrarsi alla rivoluzione in corso: doveva contribuire, smontando e rimontando il linguaggio della pittura.

In Germania, la ricerca pittorica si stava concentrando su struttura e percezione: arte programmata e cinetismo non erano passati inosservati. Ulrich Erben, Winfred Gaul, Rupprecht Geiger, Raimund Girke, Gotthard Graubner, Edgar Hofschen e altri lavoravano su un nuovo utilizzo della geometria e sulla riduzione della gamma cromatica a pochi colori per sollecitare l’attenzione dello spettatore: chi guarda l’opera – pensavano – doveva esserne parte attiva.

Questa sorta di “resistenza” della pittura fu letta in Italia, tra i primi, da Filiberto Menna. Il critico salernitano spiegò che l’arte è come un pendolo: oscilla tra due posizioni, una “sintetica” (in cui predomina l’espressione, la vitalità) e una “analitica” (in cui predomina l’introspezione, la riflessione). La pittura si trovava proprio in posizione “analitica”: lo dimostravano le ricerche di molti artisti che nonostante tutto continuavano a fare di colore, tela e telaio i loro strumenti di lavoro, che ponevano un’inedita attenzione al processo, che mettevano per iscritto le proprie riflessioni. Accadeva in Francia, in Germania e soprattutto in Italia, dove all’inizio degli anni Settanta si moltiplicavano le mostre che volevano dare conto di questa “resistenza”. Menna battezzò questo fenomeno “Nuova Pittura”, che superava la fase precedente (ormai esaurita) della libertà totale, perché presupponeva da parte dell’artista una progettualità nel mettersi all’opera. Lo scrisse una prima volta nel 1973, in un testo per un’importante collettiva ad Acireale, e sviluppò il concetto nel 1975 quando pubblicò per Einaudi il libro La linea analitica dell’arte moderna.

Menna aveva letto bene e questa progettualità “a priori” era una vera e propria situazione transnazionale, come era stato per la Nuova Tendenza pochi anni prima. Nel marzo del 1974, al Westfälischer Kunstverein di Münster, fu inaugurata la mostra “Geplante Malerei”, ovvero “Pittura progettata”. La curava Klaus Honnef, un influente critico di formazione concettuale, che da qualche anno stava studiando a fondo la Nuova Pittura europea. Fu proprio Honnef, nel dicembre di quell’anno, a circoscrivere in modo ancora più stringente la situazione, definendo “Pittura Analitica” un ristretto numero di pittori che lavoravano su un ben definito numero di problemi. L’obiettivo comune era una profonda riflessione e ristrutturazione del linguaggio-pittura, la sua scomposizione in elementi grammaticali di base per ripartire dal grado zero con un nuovo progetto di arte.

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Anche la parola “critica” deriva dal verbo greco κρίνω, divido. Una “crisi” divide due momenti, la “critica” discerne le tesi, divide e classifica gli argomenti. Deve – o dovrebbe – fare ciò basandosi sui dati di fatto. Eccone allora uno interessante.

Quarant’anni fa, il 16 settembre 1973, si apriva al Palazzo dei Diamanti di Ferrara la mostra “Un futuro possibile – nuova pittura”. Era una collettiva curata da Giorgio Cortenova, che aveva invitato ventotto artisti da vari Paesi del mondo, gli italiani erano diciassette. Tra questi diciassette c’erano anche Paolo Cotani, Riccardo Guarneri, Elio Marchegiani, Claudio Verna e Gianfranco Zappettini. Benché già tutti con un buon curriculum alle spalle, non avevano mai esposto – tutti e cinque contemporaneamente – nella stessa mostra. Questa circostanza si ripeté per la seconda volta tre anni dopo, nell’estate del 1976, a “I colori della pittura”, mostra curata da Italo Mussa all’Istituto Italo Latino-Americano di Roma: e, per quanto riguarda gli anni Settanta, quella seconda volta assieme fu anche l’ultima.

Sono passati da allora parecchi anni, e i nostri cinque sono stati protagonisti di decine di personali e collettive. Eppure, solo di recente, con la riscoperta critica e storica della Pittura Analitica, questi artisti si sono ritrovati – tutti e cinque contemporaneamente – nella medesima mostra. È capitato nel 2008, con le collettive “Pittura Analitica. I percorsi italiani 1970-1980”, curata da Marco Meneguzzo al Museo della Permanente di Milano, e “Pittura Aniconica. Arte e critica in Italia 1968-2007”, curata da Claudio Cerritelli alla Casa del Mantegna di Mantova. È capitato ancora nel 2009, per “Struttura Pittura”, al Musinf, il Museo d’arte moderna e della fotografia di Senigallia. Per la quarta volta capita oggi a Valmore Studio d’Arte di Vicenza. Assieme, dunque, hanno esposto in sei mostre in tutto, tra gli anni Settanta e il Duemila.

Quelli che sembrano puri dati storiografici suggeriscono invece alcune riflessioni. Per esempio, si può subito capire come Cotani, Guarneri, Marchegiani, Verna e Zappettini non siano mai stati un vero gruppo a sé stante: da quella prima volta di Ferrara alla seconda (e ultima) di Roma, i loro destini si intrecciarono e si allontanarono a più riprese e in vari modi. Del resto – altra riflessione che ci suggerisce la storia – anche la “Nuova Pittura” di Menna, Mussa e Cortenova, o la “Pittura Analitica” di Honnef ebbero una parabola altalenante: dall’affermazione internazionale tra il 1974 e il 1975, i confini del problema si annebbiarono nel 1976 con mostre sempre più vaste e confuse, mentre nel 1977 vi furono a “documenta 6” di Kassel le prime avvisaglie del ritorno della pittura figurativa e nel 1979 nacque la Transavanguardia. Il pendolo di cui parlava Menna era già tornato dall’altra parte, nella posizione “sintetica”: il tempo di riflettere era finito, si doveva tornare a esprimersi.

Ma i nostri cinque diedero ciascuno in varia misura un contributo a quella riflessione sul linguaggio e sui suoi elementi grammaticali. La superficie, per esempio, è un tema che attirò l’attenzione di Cotani e Marchegiani. Marchegiani rimase affascinato dal caucciù, materia di origine naturale che, lavorata in lastre, assume tattilità e caratteristiche nuove rispetto alla tela, più simile a una pelle animale. Cotani dimostrò che la superficie intesa come luogo può anche non esistere a priori, bensì essere creata durante la stesura del colore, imbevendo le bende elastiche di colore e poi con esse costruendo la superficie direttamente sul telaio.

La percezione della struttura interna dell’opera era un problema su cui Guarneri e Zappettini lavorarono nei primi anni Settanta: delicate differenze di colore delineavano campiture geometriche all’interno dei loro lavori e lo spettatore riusciva ad afferrarle solo dopo una prolungata osservazione. Il colore diventava così non solo sostanza coprente, bensì un elemento compositivo di cui il pittore si serviva per organizzare la struttura interna dell’opera: per fare ciò, Verna utilizzava spesso colori accesi, con i quali suggeriva anche altre campiture non comprese o visibili nel quadro.

La consapevolezza del procedimento era necessaria. Nei suoi “bianchi”, Zappettini preannunciava per iscritto di voler utilizzare un certo numero di mani di bianco per coprire una superficie dipinta di nero, salvo poi soltanto suggerire l’ultima mano con una semplice linea di “luce bianca”. Con le “grammature”, su intonaco o su ardesia, Marchegiani voleva recuperare una dimensione artigianale del lavoro: se le aste su intonaco sembravano ingrandimenti di un tradizionalissimo affresco italiano, l’ardesia richiamava la manualità del fare.

È evidente quindi che gli strumenti stessi non appartenevano alla vecchia pittura accademica. Le campiture di Guarneri erano ottenute con semplici pastelli, il bianco di Zappettini era quello dell’imbianchino (steso col rullo anziché col pennello), Cotani dimostrò che può dipingere “togliendo” anziché “aggiungendo” (strappando dalla superficie i fili su cui aveva dipinto in precedenza).

Nonostante le diverse provenienze e i diversi destini che avrebbero seguito dopo gli anni Settanta, i nostri cinque ebbero però chiaro che la pittura, anche nella lunga fase introspettiva, non poteva portare su di sé complessi di inferiorità verso le altre discipline.

Quel «pensare in termini di pittura» che Kosuth aveva indicato come un vicolo cieco era stato ribaltato: Zappettini lo prese a propria bandiera, ne fece il titolo di alcuni scritti e di una mostra in Germania. E Verna, a chi gli domandava «perché ancora la pittura?» rispondeva «perché ‘no’?», togliendosi dall’angolo e contrattaccando, spiegando che la pittura, «per esistere, riscrive continuamente la sua storia, rinnovando i codici che l’hanno preceduta».


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